Taddeo Tebaldi, “Sulla delegittimazione della cultura alta”

È in corso una graduale delegittimazione della cultura alta. Per accettare quest’affermazione è necessario innanzitutto riconoscere l’esistenza di una gerarchia culturale, nel cui punto più basso si trovano i reality show, la musica neomelodica e i rotocalchi, in quello più alto Tarkovskij, la musica colta e Sebald, e al centro la cultura media. I confini tra questi tre punti cardine sono variabili, e le gradazioni di valore infinite. Oggi stiamo assistendo a una traslazione di questa gerarchia, attuata attraverso la legittimazione della cultura bassa, l’emulazione della cultura alta da parte della cultura media, e l’autosegregazione della cultura alta.
Se l’embrione di questo processo si può ricondurre al 1917, con la collocazione di un orinatoio in un museo, il danno che esso avrebbe arrecato a lungo termine è stato riconosciuto soltanto nel 1962, quando il sociologo Dwight Macdonald individuò il cosiddetto «midcult». Il «midcult» è quella porzione della cultura media che, per ragioni commerciali, emula quella alta, rimanendo però accessibile a chiunque. Quest’emulazione è attuata attraverso un ampiamento del respiro, dei contenuti e della forma: un’opera maestosa, impegnata e voluminosa richiede infatti più tempo in termini di fruizione, analisi e giudizio, e pone il critico davanti a uno spartiacque dell’impegno intellettuale: il solo fatto che l’autore abbia investito tanto nella propria opera diventa di per sé un indicatore di qualità. Questa qualità, però, è soltanto un’imitazione di quella della cultura alta, una versione riduttiva e stereotipata, un’illusione di qualità consentita dalla democratizzazione dell’arte, che oggi dev’essere accessibile a tutti sia in termini di realizzazione che di fruizione.
Midcult è tutto ciò che imita senza aver capito. Midcult è il giornalista che non si accontenta di reinventarsi romanziere, ma mira addirittura al premio letterario. Già nel 1903 Azorín sosteneva che «il giornalismo è stato la causa della contaminazione della letteratura. Ormai la letteratura si è quasi estinta. Il giornalismo ha creato un tipo frivolmente enciclopedico, dallo stile brillante, dalla pedanteria insopportabile. Gli specialisti sono scomparsi: oggi si scrive per il giornale, e il giornale esige che si parli di tutto. Da qui a trent’anni saremo tutti giornalisti, ossia, nessuno saprà nulla di nulla. Ci limiteremo a intuire le cose, il che ha il vantaggio di far risparmiare tempo e di non affliggere lo spirito con la malinconia delle lunghe letture». Il midcult è anche questo, il conseguimento di traguardi alti senza «la malinconia delle lunghe letture».
Midcult sono le serie TV di nuova generazione, che vengono considerate «letterarie» o «cinematografiche», e quindi più alte dei vecchi telefilm (come se un trasferimento di categoria merceologica implicasse una promozione in termini di qualità), ma al contempo riescono a mettere tutti d’accordo, un traguardo impossibile per la letteratura o per il cinema. Il loro successo dipende però da una spietata selezione popolare, che premia soltanto quelle commercialmente «efficaci»: dietro le serie tv c’è una pianificazione che le avvicina più a uno spot vincente che all’ipotetica «magia» del cinema. Non esiste un prodotto culturale più ossessionato dal successo commerciale, e quindi più midcult, delle serie tv. Ma secondo Vittorio Giacopini «[…] oggi midcult sono anche le pagine culturali e i programmi colti della tv. Midcult è il lavoro culturale, sempre più “ereditario”, chiuso, autoreferenziale. Midcult non è solo uno stile culturale ma una strategia, un programma di sistematica ricostruzione del privilegio culturale dentro le forme della democrazia». Ed è proprio questo regime democratico il terreno fertile per una delegittimazione della cultura alta.
La democratizzazione dell’arte (che ha avuto inizio almeno due secoli fa) ha compiuto un formidabile balzo in avanti con la diffusione di Internet, verso la fine degli anni Novanta. La rete ha concesso sempre più spazio, visibilità e opportunità di autopromozione agli artisti che prima non riuscivano a raggiungere un pubblico. All’inizio questa condizione ha dato ottimi risultati, soprattutto in ambito musicale, nel quale la fruizione è attiva e immediata, mentre ha funzionato meno con le arti visive (dalla fruizione immediata ma passiva) e la narrativa (dalla fruizione attiva ma impegnativa). A un certo punto, però, si è raggiunto il «break even point», o «punto di pareggio»: dopo l’exploit di artisti indipendenti altrimenti invisibili, l’offerta ha subìto un incremento esponenziale, fino a superare di gran lunga la domanda.
Secondo la Teoria della Coda Lunga di Chris Anderson l’aggregazione delle nicchie culturali può equiparare e superare l’indotto economico del mainstream. Ciò era vero nel 2006, quando la teoria è stata formulata. Oggi però quelle nicchie si sono centuplicate, rendendo impossibile scovare il buono nel mare magnum dell’«espressivismo», e svalutando il sottobosco culturale agli occhi del pubblico.
L’espressivismo, qui inteso nell’accezione del filosofo Charles Taylor, definisce la propensione dell’uomo moderno a esprimere le proprie velleità artistiche a prescindere dall’interesse di un pubblico. Taylor però formalizzava la sua teoria alla fine degli anni Ottanta, quando era già prevedibile che chiunque avrebbe avuto i suoi «quindici minuti di celebrità», ma non esistevano ancora gli strumenti per conseguirli. Oggi l’espressivismo ha raggiunto il suo apice, e chiunque può avere i suoi quindici minuti di celebrità, il che ha enormemente ridotto il valore della celebrità, nonché il divario tra anonimi e divi.
Secondo la teoria sociologica dei Sette Gradi di Separazione, ispirata alla fantasia dello scrittore ungherese Frigyes Karinthy, qualsiasi persona può essere collegata a qualunque altra attraverso una catena di conoscenze con non più di sei intermediari. La teoria però è stata formulata nel 1929. Oggi i social network hanno centuplicato il numero delle persone con cui possiamo entrare in contatto rispetto alle possibilità della vita reale, nella quale facciamo fatica a mantenere tre o quattro amicizie, riducendo così a due i gradi di separazione. In altre parole, è probabile che tramite Facebook io conosca qualcuno che conosce personalmente Bob Dylan.
Questo avvicinamento di chiunque a chiunque ha reso meno evidente la differenza tra un aspirante scrittore e un autore affermato, al quale l’aspirante scrittore può «chiedere l’amicizia» su Facebook «perché lo conosce tramite la sua opera», e persino riceverla, quest’amicizia virtuale, nonostante l’autore affermato non ne tragga alcun vantaggio. L’aspirante scrittore ha magari trenta lettori, l’autore affermato trentamila, ma come diceva Pessoa «il povero è più ricco del Re, perché può sognare di diventare Re», e allo stesso modo l’aspirante scrittore può sognare la fama dell’autore affermato e tutto ciò, in potenza, li rende uguali.
Questo avvicinamento di chiunque a chiunque ha esasperato le «interazioni parasociali», definite dallo studioso di mass media Joshua Meyrowitz, ovvero i rapporti semi-virtuali che intercorrono tra fan e divi. Secondo la psicanalista Amalia Mele un’interazione parasociale è «l’intimismo che si intrattiene con gli “attori parasociali”, cioè con quei personaggi dei media che la consuetudine e la “frequentazione” mediale rendono intimi e raggiungibili», tenendo a mente però che questa frequentazione «pur essendo biunivoca non è mai reciproca». La conseguenza è che sui social network chiunque può interagire con le autorità di un determinato ambito e pretendere di essere trattato alla pari.
È così decaduto il rapporto di reverenza nei confronti del divo, del critico, e in generale dell’autorità. Oggi, un aspirante artista non sente il bisogno di «essere scoperto», ma vuole piuttosto «farsi scoprire», e accetta il giudizio del critico soltanto se è a suo favore. In caso contrario preferisce considerarsi «incompreso», e addebitare il proprio insuccesso alla miopia del critico. Grazie alla quantità dei canali di autopromozione, infatti, è facile procurarsi un piccolo seguito, anche di trenta persone, che spinge chiunque abbia velleità artistiche a considerarsi già un artista, a prescindere da un riconoscimento più diffuso.
Questa democratizzazione dell’arte ha però il suo prezzo. Producendo quello che in pubblicità si chiama «effetto marmellata», ovvero un calo dell’attenzione in seguito a un sovraccarico dei messaggi, la democratizzazione dell’arte mette in discussione l’autorevolezza non solo agli occhi dell’aspirante artista, ma anche a quelli del pubblico. Nessuno crede più ai critici. In un mondo in cui chiunque può considerarsi artista, chi può arrogarsi il diritto di decretare che un artista sia meglio di un altro? Soltanto il pubblico, e di certo non più la critica. Ecco perché ormai la critica opera all’interno di qualcosa che è non è più nemmeno una nicchia, perché non ha un pubblico, ma parla a se stessa e ai propri operatori: oggi un libro di critica lo legge soltanto un critico, o al massimo uno studente. L’autorevolezza ha fatto il suo tempo.
Succede così che in una trasmissione televisiva culturale la rubrica dei libri venga affidata a una scrittrice e non a un critico. La scrittrice è per sua ammissione un «critico pop», quindi non autorevole, e diversamente da un critico può permettersi di stroncare un romanzo perché «non ha una trama». Sminuire un romanzo perché «non ha una trama» significa però rinnegare la letteratura dell’ultimo secolo. Se poi il romanzo stroncato è stato scritto da un critico che dagli anni Settanta insegue con perseveranza e coerenza l’ambizione di «un libro sul nulla», sostenere che il suo romanzo non abbia una trama significa sostenere che sia un libro riuscito, e non il contrario. A questo punto viene da chiedersi: se la scrittrice si considera un «critico pop», e vuole quindi offrire un servizio al consumatore di cultura media, perché gli propone un libro alto, criticandone la mancanza di un elemento della cultura media qual è la trama? Il messaggio è chiaro: la cultura alta non è più benvenuta, è ormai considerata snobistica. Non stupisce quindi che una trasmissione culturale radiofonica come Fahrenheit venga sempre più spesso tacciata di snobismo dai suoi stessi ascoltatori. La cultura alta non è più accettata, e viene emarginata in roccaforti invisibili, lasciando che la cultura media subentri a sostituirla, imitandola senza averla capita.
Il cinema di Sorrentino è il tipico esempio di cultura media che imita quella alta. Della cultura alta Sorrentino prende la maestosità, i tempi lunghi, i tecnicismi, il non-sense, senza però averli capiti. In Sorrentino ogni espediente è fine a sé stesso. In Tarkovskij la lentezza e il vuoto hanno un senso, un contenuto, e sono ricavati per sottrazione, mentre in Sorrentino la lentezza e il vuoto hanno la funzione di una pagina bianca, da riempire a posteriori attraverso l’inevitabile produzione di senso generata dalla visione. Ma dall’esterno un vuoto è un vuoto, e se i critici hanno perso il diritto all’autorevolezza, chi può stabilire se un vuoto è alto o basso? Il risultato è che una buona fetta di pubblico considera Sorrentino un grande regista, come Tarkovskij, ma lo preferisce a Tarkovskij perché sui suoi vuoti si può speculare ludicamente, mentre quelli di Tarkovskij richiedono un atto di fede, sentimento e comprensione logica. Questo, però, è soltanto uno dei casi infiniti in cui la cultura media imita la cultura alta e le diventa preferibile.
In letteratura un certo post-modernismo riprende la maestosità, l’impegno e la mole di certa letteratura alta, ma dichiaratamente in virtù di uno «scherzo infinito». David Foster Wallace avrebbe pagato per scrivere un romanzo vero come «Libra» di DeLillo. Bolaño sperava che il pubblico non capisse nulla delle sue opere più voluminose. Questa letteratura mimetica si appoggia sul concetto di «opera mondo» per rendere più arduo il processo di fruizione, analisi e giudizio da parte dei critici, mettendoli di fronte a una grafomania di certo eccezionale, ma non alta, bensì quantitativa. Questa letteratura midcult nuoce alla letteratura alta perché viene percepita come sua pari, vanificando lo sforzo necessario a creare un’opera «seria» (o più apparentemente tale) come «Le benevole». In ambito musicale un esempio eccellente è costituito da Thom Yorke, un cantante pop che incide un pezzo di 432 ore e viene percepito come compositore neo-avanguardista, per il fan medio di Thom Yorke ignora che nel 1985 il compositore John Cage ha concepito il brano «As Slow As Possible» affinché la sua esecuzione durasse 639 anni. Altro esempio eccellente di impostura è la serie tv «Lost», che ha riscosso enorme successo commerciale nonostante la notevole complessità dell’intreccio, frutto però di uno scherzo degli autori, che scrissero inizialmente un plot privo di senso nella speranza che nessun produttore lo comprasse: eppure «Lost» è stata comprata, ha avuto successo e nell’immaginario collettivo è stata catalogata come una serie «complessa», e quindi «alta».
Parallelamente, procede la legittimazione della cultura bassa, o «popolare», quella che Macdonald chiama «masscult», che è per definizione accessibile a tutti. A un certo punto, infatti, i consumatori colti si sono resi conto che fruire con approccio ironico un prodotto culturale basso era più divertente che seguire l’umorismo sofisticato di una serie tv come «Frasier». Oggetti culturali bassi come il reality show «Il grande fratello» sono così diventati fruibili anche da parte dei consumatori colti, che hanno cominciato a rivendicare il proprio «guilty pleasure». Questo fenomeno ha invogliato gli stessi produttori a investire più sull’umorismo involontario di un reality show che su quello sofisticato, che richiede uno sforzo creativo maggiore per ottenere risultati simili. È così che nel caso di programmi meno bassi de «Il grande fratello», come «Masterchef» e «X-Factor», che possono essere guardati sia seriamente sia ironicamente, mettendo insieme enormi ed eterogenei bacini d’utenza, il problema del «guilty pleasure» è stato del tutto accantonato.
  Il «guilty pleasure» si produceva quando, all’interno della gerarchia culturale, un consumatore fruiva un prodotto concepito per consumatori meno colti di lui. Al contrario, quando un consumatore fruisce un prodotto più alto di quelli pensati per lui, solitamente si annoia. I prodotti bassi, per intrattenere, rifuggono la noia. Ma oggi lo fa anche il «midcult», che si distingue dalla cultura alta proprio per questo terrore nei confronti della noia. Nell’era della messaggeria istantanea, del fast-food e delle serie tv dai ritmi serrati, tutto ciò che si sofferma è perduto. E così anche chi un tempo consumava cultura alta finisce per preferirle il «midcult» e il «masscult» (fruito però ironicamente).
La cultura bassa, offrendo diverse modalità di approccio, e proponendosi così in quanto democratica, fa infatti apparire alta quella media, che ha perlomeno un respiro, dei contenuti e tempi di fruizione lunghi, benché epurati dalla noia. Ma se la cultura media risulta alta, la cultura alta diventa agli occhi di chiunque snobistica, con la sua pretesa di preservare una porzione di privilegiati immuni alla noia. E, in ultimo, va notato che le roccaforti della cultura alta sono davvero diventate snobistiche, confermando l’impressione esterna di «cultura oltranzista»: tutti i librai che prendono in giro eventuali clienti perché leggono best-seller o che consigliano Sebald a chi ha letto soltanto Coelho, non fanno che nuocere alla cultura alta, alimentandone l’emarginazione.
È questo, per sommi capi, il triplice processo di delegittimazione della cultura alta, un processo che, attraverso la legittimazione della cultura bassa, l’affermazione del «midcult» e l’autosegregazione della cultura alta, porterà prima o poi all’estinzione di quest’ultima. Abbattuto il tabù della fruizione di cultura bassa, più immediata e divertente, tutto ciò che non avrà una trama sarà considerato noioso. Presto di un’opera sarà sufficiente aver letto la sinossi. Ed è probabile che, già ai giorni nostri, nessuno arrivi più alla fine di articoli lunghi come questo.

 

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2 risposte a Taddeo Tebaldi, “Sulla delegittimazione della cultura alta”

  1. Buongiorno Sig. Tebaldi, ho letto con grande attenzione e piacere, dall’inizio alla fine, il suo lungo post apprezzando e condividendo le sue argomentazioni.

    Cordiali saluti,

    Federico Chigbuh Gasparini

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    • taddeotebaldi ha detto:

      Gentile Federico, grazie per il suo apprezzamento. Devo rivelarle che il pezzo non è nella sua forma definitiva, che sono soddisfatto e persino divertito dai miei stessi contenuti, ma che vorrei, se il lavoro mi lasciasse il tempo, ridurre, asciugare ed eliminare alcune parti. Vediamo. Ma davvero, grazie ancora per la lettura. Le chiedo, se le fa piacere, di farlo comunque pure circolare.

      Taddeo Tebaldi

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